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Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n. 43 Dicembre 2017

 

Lo sciopero generale deve essere indetto su obiettivi chiari e senza incertezze:

abolizione della legge Fornero

L’unità sindacale deve essere intesa e praticata a partire dalla base e non dai vertici.

Quella che è stata la ritrovata unità tra i gruppi dirigenti di CGIL – CISL – UIL, ha ricomposto il sindacalismo confederale in una prospettiva verticistica e neo corporativa che quando è stata praticata ha rafforzato il capitale nei confronti del lavoro.

Il gruppo dirigente della CGIL ha respinto la proposta del governo in materia di previdenza, che invece è stata accettata da CISL e UIL, ponendosi così su di un rinnovato percorso di opposizione: ma gli obiettivi rimangono troppo vaghi e la risposta che la CGIL ipotizza è quella di sciopero generale in prospettiva: ma è una posizione ancora troppo esitante che non corrisponde alle aspettative della base che preme per uno sciopero generale, pressione che condiziona anche i gruppi dirigenti dell’organizzazione.

Il ruolo di opposizione sociale che la CGIL sta riassumendo deve essere sostenuto e qualificato perché uno sciopero generale, per essere vincente, ha bisogno di obiettivi chiari e l’unico in grado di difendere gli interessi dei pensionati di oggi e di domani è abolire la legge Fornero.

Anche l’unità sindacale dovrà essere declinata in modo coerente al percorso intrapreso a partire dai futuri rinnovi contrattuali. La CGIL deve rinunciare all’unità verticistica con i gruppi dirigenti di CISL e UIL ormai avviati verso una deriva neocorporativa e aprire invece all’unità di base con le lavoratrici e i lavoratori delle altre OO.SS. su obiettivi concreti per:

 

una vertenza generale su salario,

riduzione orario di lavoro,

assistenza e previdenza


per unificare il lavoro pubblico con quello privato e con il precariato, ricomponendo le fratture generazionali e l’unità della nostra classe

Difesa Sindacale


Bradisismo pensionistico

Il dibattito che si è sviluppato negli ultimi 25 anni sui costi del sistema pensionistico italiano ha ruotato essenzialmente sulla registrazione dell'aumento del numero dei pensionati e del suo costo relativo. Si è discusso molto sulla tenuta finanziaria degli enti pensionistici, in particolare dell'Inps che oramai gestisce la quasi totalità dei beneficiari, e altrettanto si è discusso sull'aumento dell'età e dell'incidenza della fasce di anziani sul totale della popolazione. Molto meno ci si è soffermato sulla qualità della vita che le pensioni garantiscono a questi anziani, poco o nulla è stato raccontato sulla condizione di tanti, che proprio per l'innalzamento dell'età media, vivono condizioni di patologie croniche invalidanti con il solo aiuto della famiglia, quando si ha la fortuna di averne una che se ne fa carico, ma molto spesso nella solitudine di un welfare sempre più assente.

Un dato, quello dell'aumento dell'età media, di grande positività, che appare in realtà sempre più come una sciagura per la società.

Dalla soddisfazione dei bisogni alla quadratura dei bilanci

Le riforme che si sono succedute dal 1992 ad oggi non sono state ispirate dalla soddisfazione dei bisogni, ma hanno avuto come faro guida unicamente la quadratura finanziaria dell'ente pensionistico e del bilancio dello stato.

In sostanza si è fatto pensare alle time generazione che il bilancio dello stato si tiene se si tagliano in modo significativo le spese e tra queste in particolare quelle previdenziali, difatto si è cercato l' equilibrio del bilancio impoverendo i nostri anziani .

La situazione precedente al 1992 era quella che ci venne consegnata dal ciclo di lotte di fine anni '60 del secolo scorso, una riforma quella dell'aprile del 1969 voluta, sostenuta e concordata con le organizzazioni sindacali. «Il provvedimento è, d’altra parte, il frutto della più ampia e feconda collaborazione con le organizzazioni sindacali....” così si esprimeva il Ministro Brodolini nella relazione di presentazione alla camera. Una legge, come altre di quel periodo, che più di complesse ricostruzioni storiche ci fa capire quale era il clima generale di quegli anni in cui le condizioni dei lavoratori e delle fasce svantaggiate della società erano gli assi su cui ruotava il dibattito politico.

Riportiamo alcuni brevi stralci del dibattito parlamentare che ci aiutano meglio a comprendere il periodo.

L’onorevole Polotti, del gruppo socialista, partito che sosteneva il Governo, durante la discussione alla Camera, nel richiedere un emendamento che elevasse i livelli di contribuzione degli agrari dal 3 al 9 per cento, ebbe ad affermare che «il provvedimento che andiamo ad approvare non chiede niente ai padroni: niente, neanche una lira!» ed ancora «Si parla tanto della necessità di un allargamento del mercato interno: bene, quale occasione più favorevole per allargarlo al massimo attraverso una ripartizione del reddito nazionale che vada a beneficio delle classi più umili e più povere del nostro paese?»

Forse ancora più significative, per capire il peso delle lotte operaie sulla formazione di un sentire comune, le parole dell'onorevole liberale Pucci di Barsento, che intervenendo alla Camera durante la discussione parlamentare del 20 marzo 1969, ebbe a sostenere che una società industriale avanzata, per non compromettere irrimediabilmente il proprio futuro avrebbe dovuto necessariamente affrontare tre esigenze assolutamente prioritarie: 1) l’educazione civile, culturale e professionale delle nuove generazioni; 2) la garanzia di condizioni morali, spirituali e materiali di lavoro e di vita per i suoi cittadini; 3) un compiuto sistema di sicurezza sociale che, «come la famosa enunciazione del presidente Roosevelt, liberi definitivamente l’uomo dalla paura della fame e del bisogno, garantisca pertanto condizioni economiche adeguate a tutti coloro che si trovano in età avanzata e consenta a tutti coloro che lavorano di guardare con fiducia al loro avvenire anche e specialmente quando, al termine del lungo arco di vita dedicato alla loro attività, essi si dovranno ritirare dalla fase attiva per godersi un meritato riposo». E proseguendo nella analisi della proposta governativa ebbe modo di criticare l'esiguo importo che venne definito per la pensione sociale, proponendone un significativo incremento, sostenendolo con questa affermazione :«Una società moderna non può permettere o ammettere che si tolleri la indigenza mentre il paese è ormai avviato verso un avanzato assetto economico che si identifica con la società dei consumi. Pertanto, non si può tollerare che per legge si istituzionalizzi quasi una condizione di umana miseria che non ha riscontro se non in paesi sottovalutati». Da questa affermazioni ci separano solo 48 anni, ma se il confronto lo facciamo con la discussione politica odierna la distanza assume il contorno di anni luce.

Cosa prevedeva quella riforma?

L'idea che sosteneva l'intervento legislativo del 1969 partiva dall'assunto che al lavoratore e alla lavoratrice dopo una vita di lavoro occorreva garantire un livello di reddito agganciato all'ultima retribuzione e che tale livello fosse garantito non solo contro l'inflazione ma anche legato alla dinamica dei salari.

Il lavoratore iscritto all’INPS riceveva una pensione il cui importo era collegato alla retribuzione percepita negli ultimi anni di lavoro. Con una rivalutazione media del 2 per cento per ogni anno di contribuzione, per 40 anni di versamenti, veniva erogata una pensione che corrispondeva a circa l’80 per cento della retribuzione percepita nell’ultimo periodo di attività lavorativa. Inoltre, la pensione in pagamento veniva rivalutata negli anni successivi tenendo conto di due elementi fondamentali: l’aumento dei prezzi e l’innalzamento dei salari reali. In questa fase esperienze di previdenza complementare sono presenti solo nelle banche e in alcune aziende con appositi fondi pensione creati per i soli dipendenti delle aziende stesse.

Questi criteri di giustizia sociale, trovarono da subito severi critici nella Confindustria e nel Ministro del Tesoro Colombo che, come sarà il motivo conduttore di tutta la discussione sulla previdenza, compresa quella che guida le manovre di questi giorni, puntarono ad evidenziare, piuttosto che gli elementi di equità sociale, i motivi di equilibrio e sostenibilità finanziaria.

In un recente documento di analisi dell'istituto di previdenza, INPS, si legge” La combinazione di tali elementi assicurava un livello generale delle prestazioni troppo elevato rispetto alle risorse finanziarie disponibili. Inoltre il progressivo invecchiamento della popolazione quale effetto combinato dei due fenomeni demografici - aumento della vita media e progressiva riduzione dei tassi di natalità - hanno determinato la crisi irreversibile del sistema. Pertanto i provvedimenti normativi di modifica dell’ordinamento, da un lato hanno avuto come obiettivo l’innalzamento dell’età pensionabile, dall’altro la diminuzione del livello delle prestazioni erogate.” Per contrastare questo abbassamento costante dei valori pensionistici, si è calcolato che chi andrà in pensione con il sistema contributivo avrà un assegno pensionistico pari a circa il 50% del proprio stipendio medio, nello stesso documento si afferma che “ Per compensare la riduzione dell’importo delle prestazioni garantite dall’assicurazione di base sono state introdotte nell’ordinamento forme di previdenza complementare.”

Ovvero per garantirsi una pensione minimamente dignitosa il lavoratore è invitato/costretto a tagliare una parte del già magro salario e/o a conferire il proprio TFR nei fondi pensioni, TFR che peraltro cambiando natura, non è più assicurato dal Fondo di garanzia dell’INPS, finanziando così capitale speculativo e confidando nelle rendite di borsa. Una ennesima operazione per legare indissolubilmente il lavoratore alle sorti del capitale.

Per l'equilibrio finanziario del sistema previdenziale, non solo i padroni non ci mettono nulla, come rivendicava l'onorevole socialista nel 1969, ma sono lucrosamente sostenuti dallo Stato attraverso la decontribuzione e la fiscalizzazione degli oneri sociali. Negli oltre 100 miliardi di euro di trasferimenti dallo stato alla previdenza su una spesa complessiva di circa 280 miliardi di euro pesano in maniera significativa sia oneri impropri, ovvero oneri di natura assistenziale sia gli oneri della fiscalizzazione e decontribuzione. La situazione che si determina è quella in cui una parte considerevole della previdenza va a gravare sulla fiscalità generale, ciò per noi non rappresenta alcuno scandalo, anzi in un sistema di giustizia fiscale dove venisse rispettato il dettato costituzionale della progressività per fasce di reddito della tassazione e in un sistema che garantisse il contributo di tutti, ciò rappresenterebbe soltanto una parziale redistribuzione della ricchezza prodotta. In realtà noi sappiamo che non è così perché l'ammontare dell'evasione fiscale che ogni hanno viene stimata ha la stessa grandezza dei trasferimenti dallo stato alla previdenza. Ancora una volta a pagare sono i lavoratori, i pensionati e le fasce più deboli della società.

Dal 1992 ad oggi venticinque anni di incursioni sulle pensioni

1992 con la riforma Amato si innalza l’età per la pensione di vecchiaia, il governo decide il graduale incremento dell'età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini portando la contribuzione minima da 15 a 20 anni e si estende gradualmente, fino all’intera vita lavorativa, il periodo di contribuzione valido per il calcolo della pensione; la rivalutazione automatica delle pensioni in pagamento viene limitata alla dinamica dei prezzi (e non anche a quella dei salari reali), ciò determina una riduzione del grado di copertura pensionistica rispetto all’ultimo stipendio percepito. E' da questo provvedimento che nasce la necessità di introdurre forme di previdenza complementare con l’istituzione dei fondi pensione ad adesione collettiva negoziali e aperti. Si avvia da qui quel processo di privatizzazione che oramai sembra inarrestabile.

1995 con la riforma Dini, seppure con una previsione di modifica graduale, il sistema pensionistico viene radicalmente modificato facendolo traghettare dal sistema retributivo, dove la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore, legando anzianità contributiva e retribuzioni, in particolare quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa, che tendenzialmente sono le più favorevoli, a quello contributivo, dove l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco della vita lavorativa. Questo criterio di calcolo comporta una consistente diminuzione del rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo stipendio percepito (cosiddetto tasso di sostituzione) che corrisponde a circa il 50-60 per cento dell’ultimo stipendio.

2000 attraverso la leva fiscale si spinge verso la privatizzazione infatti con il Decreto Legislativo 47 del 2000 viene migliorato il trattamento fiscale non solo per chi aderisce a un fondo pensione, ma si introducono agevolazioni per chi intende aderire in forma individuale alla previdenza complementare attraverso l’iscrizione a un fondo pensione aperto o a un Piano individuale pensionistico (cosiddetto PIP).

2004 Riforma Maroni - 2007 Riforma Damiano-Padoa Schioppa. Inizia l'opera di smantellamento della pensione di anzianità . Arriva lo "scalone" e gli “scalini” con l'inasprimento dei requisiti per la pensione di anzianità ed innalzamento dell'età anagrafica , le quote in progressione date dalla sommatoria dei contributi e dell'età anagrafica. Per le donne rimane la possibilità di andare in pensione di anzianità a 57 anni di età e 35 anni di contribuzione, a patto di accettare il calcolo integrale del sistema contributivo.( Meccanismo che determina una consistente diminuzione della pensione erogabile) L'età pensionabile per le donne del pubblico impiego sale, gradualmente, fino a 65 anni. L'aumento decorre dal 2012. Il Tfr, nella pubblica amministrazione viene rateizzato.

2011 Riforma Fornero dal 1 gennaio 2012 la clausola di salvaguardia prevista dalla Dini del 1995 per cui chi aveva maturato almeno 18 anni di contributi al 31/12/1995 rimaneva nel sistema retributivo viene modificata introducendo il sistema contributivo pro-rata per tutti dal 1 gennaio 2012; la pensione di vecchiaia si innalza progressivamente fino ad arrivare ai 67 anni il prossimo anno per l'applicazione del meccanismo di adeguamento dell'età pensionabile all'aumento dell'età media, la riduzione progressiva dei coefficienti di rendimento anche questi legati all'aumento dell'aspettativa di vita, e l'aumento dell'età per la pensione anticipata, pensione che ha sostituito la pensione di anzianità, a quasi 43 anni.

A ciò si è aggiunto il blocco della rivalutazione delle pensioni che benché sia stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale ha visto dal governo Renzi misera parziale restituzione.

In questo progressivo smantellamento della copertura pensionistica si è inserito lo scontro sulle misure da adottare sui lavori usuranti prima e su quelli gravosi ora che è parte centrale del confronto in atto tra Governo e Sindacato.

La mobilitazione

Bene ha fatto la Cgil a non ritenere soddisfacente le briciole sulla parziale sospensione dell'adeguamento dell'età pensionabile per alcune categorie di lavoratori ed è bene che su questo si sia aperta una fase di mobilitazione, ma appare del tutto evidente che le richieste che vengono dal mondo del lavoro non si accontentano di fissare l'età pensionabile a 66 anni e 7 mesi. Sulla progressiva erosione delle pensioni culminata nella devastante riforma Fornero, si è consumata la più grave caduta di credibilità del sindacato confederale e della Cgil in particolare che non seppero e non vollero mettere in campo tutta la forza disponibile riducendo tutto il contrasto ad uno sciopero di facciata di solo tre ore. Una frattura che ancora oggi pesa come un macigno e che potrà essere ricomposta se la mobilitazione avviata il 2 dicembre ascolterà la voce delle lavoratrici, dei lavoratori, dei pensionati e dei giovani e se si libererà della zavorra del moderatismo filo governativo della Cisl e della Uil. Non solo vi è la necessità di riaffermare che dopo 40/41 anni di contributi è più che lecito accedere alla pensione e che la pensione di vecchiaia non dovrebbe andare al di là della fascia 60/65 a secondo del settore di lavoro e in considerazione delle differenze di genere.

Più in generale è forte la richiesta di cancellare la Riforma Fornero.

Lavoro e contributi per i giovani

Obiettivi questi che sono centrali per chi ha un percorso lavorativo già avviato e continuo, ma del tutto insufficiente per quelle generazioni che oramai da più di un decennio o sono fuori dal modo del lavoro e lo attraversano nella più assolta precarietà con periodi significativi di non lavoro o di lavoro gratuito.

Per questi giovani è necessario nell'immediato rivendicare la contribuzione previdenziale per qualsiasi forma di lavoro comunque camuffata, sia che si tratti di tirocini e stage formativi, o che si tratti di servizio civile o alternanza scuola lavoro. Così come forme di contribuzione dovranno essere previste per i periodi di non lavoro per tutti coloro che attraverso i centri dell'impiego daranno disponibilità a lavorare e per i periodi in cui saranno impegnati in corsi di formazione. Accanto a questi provvedimenti, per poter garantire un livello di pensione che sia dignitoso sarà utile definire un livello di pensione minima e di assegno sociale che sia agganciato alla soglia di povertà relativa definito annualmente dall'istituto di statistica.

 

SALARI, DIMINUZIONE DELL'ORARIO DI LAVORO, PENSIONI PUBBLICHE , POTENZIAMENTO DEL WELFARE SOCIALE , RINNOVO DEI CONTRATTI DI LAVORO.

CANCELLARE LA RIFORMA FORNERO

CONTINUARE LA MOBILITAZIONE VERSO

LO SCIOPERO GENERALE

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Uno contributo al dibattito in vista del XVIII congresso della CGIL

Il XVIII congresso della CGIL è previsto per la primavera 2018. Ancora non vi sono comunicazioni ufficiali al riguardo né si conoscono quelli che potranno essere gli schieramenti in campo: è quindi prematuro indugiare in prognostici, ipotesi e supponenze.

Quello che maggiormente ci interessa è far emergere lo stato dell’organizzazione che vede la CGIL in una condizione di subalternità al quadro economico e politico, dalla quale consegue una linea moderata e incerta, di evidente inadeguatezza quindi dell’intero gruppo dirigente.

Quando parliamo di inadeguatezza non ci riferiamo alla capacità individuale delle singole compagne e compagni componenti i gruppi dirigenti centrali e periferici della CGIL, ma alla sua complessiva capacità di costituire una forza risultante capace di incidere efficacemente nell’attuale fase di crisi e di offensiva padronale alle condizioni di vita delle classi subalterne.

La situazione è allarmante, non solo perché questo scenario si manifesta in una situazione che vede i rapporti di forza tra capitale e lavoro come assolutamente sfavorevoli al sindacato, all’azione sindacale e, soprattutto, alle lavoratrici, ai lavoratori e alle classi sociali più deboli e meno tutelate nel nostro paese, ma anche perché i gruppi dirigenti confederali dimostrano di procedere verso il consolidamento delle loro scadenze interne che consistono, in generale, nel rilanciare il ruolo concertativo a scapito dell’azione unitaria di massa e della partecipazione reale delle lavoratrici e dei lavoratori alla gestione del sindacato, sempre più caratterizzato dalla distanza dai concreti problemi del lavoro.

Il nostro richiamo alla concretezza non vuole di certo essere propagandistico ma propositivo consapevoli, come d’altronde siamo, delle difficoltà che stiamo vivendo e di come queste si sviluppano all’interno dei luoghi di lavoro, alimentando i particolarismi e le tendenze corporative che scoraggiano l’unità di classe indebolendo la medesima azione sindacale.

Non è quindi alzando di continuo l’asticella delle richieste che si difendono gli interessi del lavoro e degli strati più deboli della società, anzi: così facendo si costituiscono elites che non producono la necessaria unità di classe, presupposto essenziale per ogni avanzamento collettivo. Ribadiamo che l’azione sindacale è, per definizione, azione di massa, che disdegna il volontarismo e l’avanguardismo anche categoriale.

Tradotto in termini sindacali tutto questo significa che i processi di unità di classe si costruiscono anteponendo ciò che unisce a ciò che divide, perché come andavano affermando gli antichi maestri nostri "meglio fare un solo passo con tutti i compagni nella via reale della vita che rimanersene isolati a percorrere centinaia di leghe in astratto".

E’ questa una citazione del compagno comunista anarchico Carlo Cafiero (1846 – 1892), oggi assai ricorrente e in parte anche politicamente abusata, ma esprime comunque una profonda valenza sindacale che rivendichiamo, non solo perché rappresenta le radici nostre, ma anche perché esprime chiaramente che l’obbiettivo unitario della nostra classe ha la precedenza su quello particolare e sulla diatriba tra sigle sindacali più o meno rappresentative, oltre che su di un processo di unità sindacale burocraticamente perseguito come sommatoria dei soli gruppi dirigenti costruito sopra, e talvolta a discapito, della partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, così come avviene con CISL e UIL.

Analizziamole, allora, queste emergenze, senza la pretesa di essere esaustivi, per iniziare un dibattito in vista del prossimo XVIII congresso proprio per evitare che sia un congresso autoreferenziale e quindi inutile, così come lo è stato il XVII volto come è stato all’autoreferenziale celebrazione dei gruppi dirigenti e che ha contribuito a replicare le forme e le finalità di un sindacato fragile e scarsamente rappresentativo del lavoro e dell’intero assetto di classe del nostro paese.

SALARIO

La lotta salariale non ha assolutamente perso la sua importanza che anzi è andata ad accrescersi nel tempo.

La differenza tra ieri e oggi consiste nel fatto che la polverizzazione di classe, conseguente ai giganteschi processi di ristrutturazione del modello capitalistico di produzione, del mercato del lavoro e della sua organizzazione realizzati su scala internazionale in questi ultimi decenni, ha aumentato a dismisura le disuguaglianze sociali rendendo prioritaria una vertenza salariale la quale però, per essere vincente, dovrà essere inevitabilmente generale e non condotta per categorie così come si va prefigurando da parte del sindacalismo confederale e della CGIL evidentemente per meglio poter controllare il movimento proprio perché una vertenza generale è sempre, per sua natura, sovvertitrice dell’ordine esistente soggetta com’è a sfuggire di mano.

Così è che non si lavora per una vertenza generale sul salario ma si opera categoria per categoria facendo leva sul rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro che non hanno alcuna piattaforma comune, se non asfittiche ipotesi di aumenti salariali che rimangono improponibili.

Non significa allora negare le specificità categoriali o trascurare le scadenze contrattuali in corso di rinnovo, ma per quanto riguarda il salario è urgente iniziare a definire obiettivi comuni per tutti i settori lavorativi sia pubblici che privati, per i disoccupati e per gli inoccupati, per i precari e per i pensionati.

Un ampio ventaglio sociale e di classe che, per le inevitabili contraddizioni che esprime, ha fino ad oggi riscontrato il sostanziale disinteresse del sindacalismo confederale e sorpreso la CGIL in una condizione di fragilità e di impreparazione ad accoglierlo e rappresentarlo, ma che deve essere riunito con un’azione sindacale capillare e inclusiva, capace di ridare ai salari il potere di acquisto che hanno perduto.

Ha infatti poco senso continuare a declinare che questa o quella categoria è la meno pagata d’Europa e via discorrendo, evitando di far emergere che in Italia esiste un’emergenza salariale diffusa, sia nel privato che nel pubblico, e che esistono livelli di disparità salariale interni alle categorie e tra categorie diverse che devono essere assolutamente sanate. Non basta quindi declinare la sia pure condivisibile richiesta di “forti aumenti salariali”, se non si definisce un equo modello redistributivo che rilanci l’egualitarismo e la solidarietà di classe.

DISOCCUPAZIONE E PRECARIATO: RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO

"La matrice unica del precariato l'ha costruita il Parlamento per ridurre i costi contrattuali. In questo noi Cgil abbiamo commesso un grave errore: abbiamo pensato che questa (del precariato, ndr) sarebbe rimasta un'area ridotta. Nel 2007 avevamo fatto un accordo con Prodi che non si è realizzato. E nel frattempo è scoppiato il fenomeno di finto lavoro autonomo".

E’ con questa dichiarazione (Ballarò RAI 3) che nel 2014 la compagna Susanna Camusso si espresse a proposito delle responsabilità del sindacato rispetto al proliferare del lavoro precario.

La dichiarazione è certamente onesta ma alquanto tardiva e superficiale, avara di autocritica com’è. E’ infatti giunta circa 17 anni dopo alla Legge 24 giugno 1997 n. 196 meglio nota come “Pacchetto Treu” (Tiziano Treu era allora ministro del lavoro del governo Prodi), che non riscontrò l’opposizione della CGIL la quale, alla sua successiva attuazione non può quindi dirsi estranea.

Rinviando le dietrologie, che pure sarebbe importante ripercorrere per dare corpo teorico e strategico agli “errori” di un certo sindacalismo che enuncia riforme che poi non si realizzano presentando il conto a distanza di anni, c’è da dire che il precariato, in quanto prospettiva strategica della nuova organizzazione capitalistica del lavoro, necessita di una strategia di attacco la quale, per essere vincente, non potrà che riproporre la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Una tendenza storica questa del movimento operaio e sindacale internazionale che la CGIL deve ripercorrere con chiarezza e entusiasmo, affermando che la riduzione dell’orario di lavoro favorisce l’occupazione, al di là di quello che vanno sostenendo i bocconiani, saldando i bisogni delle lavoratrici, dei lavoratori e dei pensionati con quelli delle future generazioni, dei disoccupati, dei precari e di tutti gli strati più deboli della società, verso un comune interesse sociale.

PENSIONI

La CGIL non si è a suo tempo opposta alla Legge Fornero ed oggi muoversi contro quella legge è sicuramente più difficile, anche in considerazione del clima di sfiducia che quella mancata opposizione ha generato e che ha notevolmente indebolito la capacità negoziale del sindacato e la sua credibilità. Al riguardo segnaliamo che i risultati della trattativa con il governo sono patetici e irrilevanti, condotti come sono alla stregua di un rapporto tra burocrazie, scisse da un rapporto con la condizione dei pensionati, dei pensionandi e delle lavoratrici e dei lavoratori.

Questa trattativa sta indebolendo l’intero movimento sindacale, screditando la CGIL.

E’ quindi necessario rompere gli indugi e rilanciare con l’unico prospettivo in grado di mettere in difficoltà il governo: l’abolizione integrale della Legge Fornero.

Si dirà che questo è un obiettivo “massimalista”: ma l’opposizione a una legge profondamente ingiusta doveva essere effettuata al tempo e al luogo e siccome, all’epoca, nulla di significativo si fece e quella legge passò con un sostanziale avvallo anche del gruppo dirigente della CGIL, questo non può sottrarsi alle conseguenze negative del suo medesimo operare condannando chi, invece, vuole contenere i danni.

Aggiungiamo che se si fossero chiamati i lavoratori alla lotta, se la CGIL si fosse materialmente opposta a quella legge, oggi ripartire sarebbe certamente più semplice.

Consapevoli delle difficoltà crediamo che per riparare a un grave danno è necessario un obiettivo unitario capace di saldare gli interessi delle generazioni e questo non può che essere, lo ripetiamo, l’abolizione integrale della Legge Fornero.

UNA PIATTAFORMA PER UNA GRANDE VERTENZA UNITARIA


Salario, riduzione orario di lavoro, pensioni. Questi sono gli obiettivi da articolare in una piattaforma per preparare una vertenza unitaria che nel corso della lotta divenga sempre più inclusiva, dove gli aumenti salariali intendono redistribuire la ricchezza sociale prodotta in termini più equi e a vantaggio dei redditi più bassi; dove la riduzione dell’orario di lavoro favorendo l’occupazione è in grado di saldare i bisogni delle lavoratrici, dei lavoratori e dei pensionati con quelli delle future generazioni, dei disoccupati, dei precari e di tutti gli starti più deboli della società verso un comune interesse sociale; infine le pensioni possono ricomporre da subito l’unità di classe con obiettivi appropriati capaci di coinvolgere i giovani e gli immigrati, progressivamente sanando la frattura generazionale che le regie padronali artatamente alimentano.

Questo se le piattaforme vogliono essere unitarie. Se invece vogliono essere distintive perché l’obiettivo preminente è quello interno agli equilibri dei gruppi dirigenti autoreferenziali come accade all’interno del sindacalismo confederale che indugia su obiettivi ambiziosi riducendosi a svolgere un’azione di moderazione degli interessi materiali delle classi subalterne, per essere riconosciuti come controparte in un’ipotesi concertativa sempre più fragile di fronte alla determinazione capitalista.

In ambiti sindacali le piattaforme non possono essere comunque declinate a proprio uso e consumo, ma è necessario essere concreti per essere credibili rispetto a chi intendiamo rappresentare: ed è questo un aspetto sul quale il XVIII congresso della CGIL dovrebbe riflettere per trovare risposte all’altezza delle necessità, risposte che sono tutt’altro che semplici e scontate.

Cosa è, allora la concretezza? Parrà strano ma la concretezza non può ritenersi sinonimo “del possibile” e ridotta a una mera operazione di bilancio così come, obiettivamente, il gruppo dirigente della CGIL semplicisticamente ritiene.

In pratica: concretezza non significa individuare le risorse prima per procedere alle richieste poi.

Così fanno i ragionieri i quali, con il dovuto rispetto per la categoria, non dovrebbero gestire un’organizzazione dei lavoratori.

La concretezza non è “compatibilità” e già entriamo in un ambito sindacalmente più consono: la concretezza non è, quindi, quel realizzare “gli interessi del paese” che corrisponde ad assumere, nell’ineludibile rapporto di forza con il capitale, la difesa degli interessi dell’imperialismo italiano per cui si ritiene di finanziare il rilancio dell’economia con la ricchezza prodotta dal lavoro, senza che a questi giunga nulla o pressoché, così com’è avvenuto dalla svolta dell’EUR del 1978 e con la successiva “politica dei redditi”.

Questa non è concretezza ma subalternità a un quadro economico e politico irriformabile nei suoi aspetti fondanti, che rende dipendente dal quadro economico e politico, se questi non si attrezza per resistergli. Su questo deve riflettere il nostro XVIII congresso.

Ma la domanda non può rimanere elusa. Cosa è la concretezza di una organizzazione sindacale di massa qual è la CGIL?

E’ costruire, giorno per giorno, a partire dai luoghi di lavoro e dai territori quell’unità della nostra classe sociale attorno alla difesa dei bisogni delle classi subalterne.

Non si può continuare a ritenere che l’equità fiscale o che gli investimenti pubblici finalizzati al comune interesse e non agli interessi particolari ed ai profitti, siano obiettivi suscettibili di essere raggiunti senza sacrifici, quando questi sacrifici si chiamano lotte.

Concretezza significa allora il riappropriarsi della dimensione conflittuale, l’unica in grado di svolgere quell’azione sovvertitrice degli intenti del padronato e del governo: chiamando alla mobilitazione unitaria su obiettivi quali salario, riduzione dell’orario di lavoro e pensioni, si compie una operazione agitatoria tesa a creare un movimento reale capace di incidere sui rapporti di forza tra capitale e lavoro, individuando le risorse per il raggiungimento degli obbiettivi preposti. La storia della nostra classe dimostra che il percorso inverso è perdente: partendo da obiettivi compatibili si rafforza lo schieramento padronale e governativo, gli obiettivi a difesa degli interessi delle classi subalterne sfumano e il sindacato si discredita e si indebolisce.

UN NUOVO MODELLO DI SINDACATO

Fare attività sindacale costa e questi costi, se mal finalizzati, possono divenire insostenibili.

Per questo motivo la CGIL deve concretamente fare affidamento al proprio patrimonio militante diminuendo drasticamente il numero dei distaccati a vita e su questo aspetto è necessario esprimersi in modo chiaro: almeno per quello che riguarda le categorie territoriali dopo 8 anni di distacco chi ha ancora il lavoro deve tornare in produzione. Questa regola generale potrebbe e dovrebbe riguardare anche tutta la CGIL, ma “Roma non è stata fatta in un sol giorno” e ben sappiamo quali interessi, anche personali, andiamo a toccare con una simile proposta in considerazione che le rendite burocratiche di posizione sono, obiettivamente, molto bel piantate all’interno della nostra organizzazione per cui già partire dalle categorie è da considerarsi un inizio credibile. Altra questione importante alla quale mettere mano sono gli stipendi dei funzionari e dei dirigenti sindacali che devono essere urgentemente ridotti e riparametrati all’andamento medio dei salari ed è il caso di abolire anche i contributi figurativi che si configurano come un privilegio nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che rappresentiamo oltre, naturalmente, a tutti gli altri sfruttati. Queste misure, se organicamente perseguite, non solo riporterebbero i bilanci in ordine, obiettivo questo non sottovalutabile, ma riconferirebbero alla CGIL quella credibilità oggi obiettivamente incrinata.

Queste scelte, che si propongono una razionalizzazione e una finalizzazione delle nostre non irrilevanti risorse, divengono propedeutiche non solo a una migliore amministrazione delle nostre finanze che provengono da iscritte e iscritti, ma anche a una rivitalizzazione militante della CGIL per rilanciare le Camere del Lavoro nei territori affinché accrescano la propria funzione di punto di riferimento nei territori dell’iniziativa sindacale basata sull’impegno collettivo e non già sul “funzionariato” nel suo sempre più insostenibile ruolo ormai autoreferenziale, ed è proprio questo il punto: la CGIL ha bisogno di tornare ad avere funzionari e non già amministratori, perché in questi ultimi anni questi due ruoli si sono alquanto confusi, con la deriva burocratica del sindacalismo.

E’ quindi necessario tornare ad avere funzionari il più possibile saldati alle realtà produttive e territoriali, sostenuti da un vasto tessuto militante di compagne e compagni per far si che la CGIL si definisca nelle sue scelte sempre più dal basso e non dal vertice come sta accadendo con sempre più frequenza e nel generale disinteresse.

Infine, nella consapevolezza della difficoltà dei tempi e dell’immobilismo complice della CES, la CGIL dovrà concretamente impegnarsi, con proprie autonome iniziative, nel porre le basi per la costruzione di un sindacato europeo per i contratti delle lavoratrici e dei lavoratori d’Europa.

Altro ancora ci sarebbe da dire ma crediamo che questi contributi possano almeno per ora bastare a stimolare una discussione precongressuale.


Difesa Sindacale

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